Il color Porpora

Il porpora o paonazzo è uno degli “smalti” araldici classici (che si dividono in “colori”: rosso, azzurro, verde, nero, porpora; e “metalli”: oro e argento). Oltre a queste tinte si usano le due pellicce d’armellino e di vajo.

 

Su quale sia la sua “esatta” tonalità non c’è un accordo unanime: viene rappresentato in una gamma variabile che va dal grigio-bruno al rosa-violaceo (per questo alcuni lo definiscono “violetto”), passando per il rosso, che sono le tinte che si ottengono in natura.

 

Nella rappresentazione monocromatica araldica è simbolizzato da linee parallele diagonali inclinate dirette dall’angolo superiore sinistro dello scudo (a destra per l’osservatore) verso l’angolo inferiore destro (alla sinistra dell’osservatore).

 

La sua stessa classificazione come “smalto” è relativamente recente, negli stemmi più antichi era pressoché assente e, quando comparve venne adottato sia come “colore” che come “pelliccia”.

 

Il porpora vero e proprio è il colore distintivo dei vescovi e soprattutto in tale impiego è conosciuto come “paonazzo” (“del pavone” giacché è uno dei colori degli “occhi” della coda del maschio) ed usato per gli stemmi degli ecclesiastici con incarichi nella Curia Pontificia.

Stemma di mons. Giovanni Secondo Ferrero Ponsiglione (1580-1631),
Protonotario e Referendario Apostolico

 

In francese la parola mauve indica il color malva, molto simile al violetto, per cui lo smalto porpora è utilizzato anche come arma parlante (come ad esempio nello stemma del comune di Mauves-sur-Loire, il cui campo è di color porpora).

Stemma della Mairie di Mauves-sur-Loire

 

Nell’araldica inglese si definisce “purpure”, da non confondersi con il purple, e se presente negli stemmi dei principi sovrani viene detto anche “mercure” (mercurio).

 

La sua particolarità deriva dal fatto che il porpora autentico, come tinta, era rarissimo e costoso divenendo il colore regale per eccellenza.

 

Intorno al I millennio a.C. i più rinomati produttori di porpora erano i Fenici, che ne traevano grandi profitti, la stessa parola che noi utilizziamo per identificare quella popolazione deriva dal greco Phòinikes, da phòinix, «rosso porpora».

 

Sulla sua “invenzione” nate diverse leggende, una delle quali afferma che sarebbe stato Eracle a donare al re fenicio, dal significativo nome di Phoenix, un mantello color porpora. Il re, incantato dalla bellezza di quel colore, avrebbe decretato che da allora in poi solo i sovrani avrebbero avuto il diritto d’indossare indumenti di porpora.

 

I fenici, da parte loro, attribuivano la scoperta della porpora ad un cane, appartenente a Tyros, moglie del dio Melqart e patrona della città di Tiro: un giorno, camminando lungo la spiaggia, Melqart e la sua compagna notarono che il cane stava mordendo un mollusco spiaggiato. Più mordeva il mollusco, più la bocca dell’animale si colorava di viola: Tyros fece quindi realizzare un abito colorato con il pigmento del mollusco, dando inizio all’industria della porpora fenicia.

 

Quest’ultima leggenda è legata alla città di Tiro (Ṣūr, in arabo), nell’attuale Libano, dalla quale proveniva la varietà più pregiata della tintura.

 

La produzione della tinta era alquanto complessa: la base della porpora è la secrezione rossiccio-violacea di una ghiandola presente in alcuni molluschi del mar Mediterraneo soprattutto del genere “murice”: Murex trunculus, Murex brandaris ma anche Purpura lapillus, Helix ianthina. Ogni mollusco contiene una goccia di liquido nella ghiandola ipobranchiale, che raccolto da migliaia di animali (ce ne vogliono 250.000 per ottenere 30 grammi di tinta) veniva messo in un tino pieno di urina stantia (per via dell’ammoniaca) e lasciato fermentare per una decina di giorni prima di intingervi le fibre da colorare, le quali però assumevano il colore che non si deteriorava se esposto alla luce del sole.

 

L’enorme quantità di molluschi necessari per la produzione portò quasi all’estinzione di questi gasteropodi, e la tinta divenne rara al punto che papa Paolo II nel 1464 decretò che i cardinali dovessero indossare mantelle scarlatto intenso (cioè rosse, ossia “rosso cardinale”) invece che porpora, la locuzione “ricevere la porpora cardinalizia” rimase ma cambiò il colore: il porpora-violaceo vero e proprio rimase per i vescovi.

Stemma del card. Matteo Maria Zuppi
Arcivescovo di Bologna (dal 2015)

 

Nell’impero d’Oriente le donne della famiglia imperiale partorivano in stanze arredate con suppellettili di porfido (una pietra color porpora) e drappi di porpora, in maniera che i figli fossero “porfirogeniti”, cioè “nati nella porpora”, rafforzando la loro capacità e diritto di governare.

 

In Italia, una tonalità di rosso cupo tendente al viola venne adottata per il “Capo del Littorio” in epoca fascista, una pezza araldica ispirato dall’uso Napoleonico istituita col R.D. n. 1440 del 12 ottobre 1933 per contrassegnare tutti gli stemmi civici: “Di porpora al fascio littorio d’oro circondato da una corona composta di un ramo d’alloro e uno di quercia legati da un nastro con i colori nazionali”.

Il fascio è un’insegna di origine etrusca costituito da un mazzo di verghe e da una scure, tenute insieme per mezzo di corregge: è il simbolo del potere coercitivo della legge, quindi dell’autorità dello Stato. Era portato da Littori, ufficiali di scorta al servizio degli alti magistrati Romani che, con il loro ufficio, comminavano pene corporali e capitali. Mussolini lo rese obbligatorio ma, alla sua caduta, la norma che lo imponeva fu cancellata e la figura abrasa dagli stemmi (D.Lt. del 26.10.1944).

Stemma della città di Varese
durante il periodo fascista

 

Anche nel nostro Paese non sono molti gli stemmi civici che hanno il porpora come colore principale. Come colore di oggetti è però usato per i grappoli d’uva (in quei territori dove la varietà a bacca scura è particolarmente rinomata).

Stemma della città di Tuscania (Viterbo)

 

Stemma del Comune di Buttigliera d’Asti

 

 

Nota di Massimo Ghirardi © 2021

 

 

Bibliografia:

 

Ginanni (Marc’Antonio). L’arte del blasone dichiarata per alfabeto, Venezia, Guglielmo Zerletti, 1756.

 

Saint Clair (Kassia). Atlante sentimentale dei colori. UTE