Leone XII – Genga Sermattei


Leone XII – Genga Sermattei

Annibale della Genga Sermattei nacque a Monticelli di Genga, nel distretto e diocesi di Fabriano, il 22 agosto 1760. Figlio del conte Ilario e della contessa Maria Luigia Periberti, il cui stemma di famiglia era “un’aquila coronata d’oro in campo azzurro” che il futuro papa avrebbe poi arricchito di una corona a tre punte e adottato come stemma personale.

Sesto di dieci figli, fu avviato alla carriera ecclesiastica e educato nel collegio Campana di Osimo e poi nel collegio Piceno di Roma per concludere gli studi presso la pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici.

Era solenne nella figura, fiero nel portamento, elegante.

Nell’agosto del 1790, Pio VI in persona gli affidò l’incarico di pronunziare nella cappella Paolina del Quirinale l’orazione in morte dell’imperatore d’Austria Giuseppe II. Fu poi nominato titolare della Nunziatura della Germania renana, ambiente non facile in periodo napoleonico.

Sì evidenziò in lui una capacità di estremo rigorismo, di natura per la verità più politica che teologica.

Si spinse fino a preconizzare un avvicinamento della chiesa di Roma con quella ortodossa.

Fu considerato, per le sue esperienze pregresse un esperto di politica tedesca anche se i suoi interventi raramente risultarono risolutivi. Nei confronti della Germani, in grave difficoltà politica propose un’ipotesi di concordato che assegnava rendite altissime alle sedi vescovili e riconosceva loro la piena facoltà di acquisto di beni, la censura sui libri e il controllo dei vescovi sull’istruzione pubblica, senza però ottenere risultati significativi.

Fu solo dopo la caduta di Napoleone, con l’invio a Parigi in qualità di rappresentante pontificio presso gli alleati e di nunzio straordinario in Francia, che della Genga tornò sulla scena con richieste decisamente eccessive perché, oltre a reclamare la restituzione allo Stato pontificio dei territori perduti, tra i quali anche Avignone e il Contado Venassino, pretendeva anche che, in Francia, Luigi XVIII restituisse alla religione il ruolo di preminenza.

Emarginato dalla scena visse in una sorta “torpore misto a disturbi di salute parte reali, parte immaginari”. Avrebbe voluto imprimere alla Chiesa una linea aliena da ogni compromesso con i processi di secolarizzazione in atto: dovette rassegnarsi, invece, a veder sorgere sullo Stato pontificio un’epoca nel corso della quale gli aspetti burocratico-amministrativi di stampo riformistico sarebbero stati decisamente privilegiati rispetto allo sperato e per lui fondamentale ritorno ad una religiosità pervasiva e ad un disegno di riaffermazione del primato del potere religioso su tutti gli altri poteri.

Pio VII lo elevò al cardinalato e lo destinò alla diocesi di Senigallia, ma non raggiunse mai la sua sede vescovile e decise di farsi da parte. Ebbe il titolo della basilica di S. Maria in Trastevere e le cariche di prefetto della Sacra Congregazione dell’Immunità Ecclesiastica e di cardinale vicario tanto da far tornare in auge l’intransigentismo zelante. Il cardinale esercitò una severissima sorveglianza sui costumi, un accentuato fervore persecutorio, un esemplare e rapido iter processuale, un’inflessibile esecuzione delle condanne per i delitti contro la morale

Pio VII morì il 20 agosto 1823. Quando pochi giorni dopo si aprì il conclave fu subito chiaro che si fronteggiavano due tendenze, la zelante e la politicante, fedele al programma di risveglio spirituale, la seconda, attestata sulla linea del riformismo. Il conclave, però, si rivelò anche il luogo in cui si scontravano da una parte l’esigenza francese di avere un papa ostile all’Austria e, se possibile, moderatamente riformatore, dall’altra la preoccupazione austriaca di portare al trono un candidato di sicura fede legittimistica. Si optò, quindi, per un papa di passaggi con non lunghe aspettative di vita.

Il conclave dell’autunno del 1823 seguì appunto questo schema. Quando fu chiaro che si doveva trovare un accordo, gli zelanti proposero quello del della Genga. Bastò che in seno al conclave circolasse la notizia della sua candidatura perché si trovassero i trentaquattro voti,uno più del minimo indispensabile, per eleggerlo, cosa che avvenne il 28 settembre 1823. Il nuovo papa scelse per sé il nome di Leone XII per gratitudine verso Leone XI che aveva donato alla sua famiglia il feudo della Genga.

Godeva di un sicuro prestigio negli ambienti ecclesiastici e diplomatici, nei salotti e nelle accademie, dove aveva spesso esibito lo spessore dei suoi interessi culturali e la rigidità della sua dirittura morale. Non volle essere il papa degli zelanti né volle caratterizzarsi come colui che aveva cancellato tutte le realizzazioni del Consalvi; piuttosto, era apparso chiaro che il nuovo papa era intenzionato a muoversi con la massima libertà e senza che la gerarchia intralciasse l’idea di Chiesa che era risoluto a portare avanti.

Si può dire perciò in un certo senso che proposito iniziale del papa fosse quello di impostare senz’altro la propria azione futura su un risveglio spirituale della società collegato a una migliore qualificazione della Santa Sede sul piano dei rapporti internazionali.

Il papa individuava nelle teoriche rivoluzionarie, nel liberalismo e nello spirito di tolleranza l’origine dell’indifferentismo che affliggeva il mondo moderno; di qui il suo invito ai sovrani “a tradurre in norme coercitive le condanne papali”, la sua esortazione a ricreare il clima morale dell'”Ancien Régime”, e l’appello successivo a Luigi XVIII, re di Francia, a promuovere un “nuovo ordine mondiale caratterizzato dal ricorso al papa e alla gerarchia per la definizione di questioni temporali”.

La sua riedificazione di Roma come città santa la si ebbe con il giubileo del 1825 e celebrato a cinquant’anni dall’ultimo. L’Anno santo si rivelò un’iniziativa fortunata sotto il profilo dell’afflusso dei pellegrini, che riempirono la città mettendo a dura prova le strutture predisposte per l’accoglienza.

In questo quadro avente come cornice l’esaltazione del potere e del magistero papale rientrava anche il rilancio delle mai sopite persecuzioni antiebraiche, con conseguente ampliamento del ghetto romano, successiva sua chiusura con obbligo di trasferimento al suo interno delle attività commerciali precedentemente svolte in città e censimento finale di tutte le botteghe gestite dagli ebrei.

Dal 1826 aveva quindi inizio il ripensamento della politica di Leone XII. Rientrati tutti i propositi di fare del papato il centro di gravità spirituale del mondo ed emarginati i personaggi come il Marchetti e il Ventura, ci si orientava, probabilmente su pressione del cancelliere austriaco Metternich (che per un equivoco, come racconta egli stesso, per poco non era stato fatto cardinale), verso un più modesto tentativo di rimettere ordine nelle strutture temporali dello Stato. Si creavano così alcune congregazioni e commissioni, alla ricerca di un’efficienza che non sarebbe mai arrivata per via dell’adozione di un centralismo che era molto burocratico e poco funzionale, e aveva i maggiori limiti nel suo carattere autoctono, così come quello consalviano aveva avuto i suoi pregi nel richiamo – per quanto cauto – alla cultura amministrativa francese. E comunque una Congregazione della Vigilanza, istituita il 27 febbraio 1826, ebbe il compito di intervenire sulla pubblica amministrazione per regolarne il lavoro e reprimerne gli abusi, mentre il 27 dicembre 1827 un “motu proprio” avviava l’impianto della Direzione generale delle dogane e del dazio consumo, pensata per frenare il contrabbando e incrementare le entrate; più tardi, il 21 dicembre 1828, sarebbe nata la Congregazione di Revisione dei conti, destinata a sottoporre a controllo i disastrati bilanci preventivi e consuntivi della Reverenda Camera apostolica e di tutti gli altri uffici pubblici. A quell’epoca il segretario di Stato della Somaglia aveva da sei mesi lasciato il posto al più giovane e più pratico di cose mondane cardinale Bernetti.

Il terreno sul quale il pontificato di L. ottenne i risultati più qualificanti fu però quello dell’assistenza e della carità pubblica, o della beneficenza, come si diceva – con un termine che ricordava il precedente napoleonico – nel testo del “motu proprio” che il 16 dicembre 1826 istituiva la commissione dei sussidi allo scopo di distribuire gli aiuti alla popolazione indigente e di eliminare mendicità e vagabondaggio. Fare dei poveri la principale risorsa della Chiesa era il vero obiettivo di questa politica che, a differenza di quella francese cui è stata da taluno accostata, non si limitava a curare l’emergenza ma, preoccupandosi solo di disciplinarla e alleviarla, la rendeva strutturale e ne faceva un punto essenziale del dirigismo economico papale, capace di esprimersi anche attraverso altre misure quali il contenimento degli affitti e il blocco degli sfratti che, prese in prossimità del giubileo, restarono a lungo nella legislazione pontificia, con disappunto dei pochi liberisti presenti allora nello Stato.

Con il 1826 la politica vaticana fu di una convergenza d’interessi con le potenze controrivoluzionarie che produsse una condizione più favorevole all’esercizio del culto anche attraverso concordati.

Leone XII morì in Vaticano il 10 febbraio 1829 e fu seppellito in S. Pietro. Il suo sogno di una grande e integrale restaurazione spirituale del mondo cristiano non riuscì a realizzarlo.

Nota di Bruno Fracasso

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Disegnato da: Massimo Ghirardi

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Profilo araldico


“D’azzurro, all’aquila d’oro, coronata dello stesso”.

Colori dello scudo:
azzurro
Oggetti dello stemma:
aquila
Attributi araldici:
coronato

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