Cardinale Carlo Borromeo


Cardinale Carlo Borromeo

Secondo la tradizione, in occasione dell’Anno Santo 1300, un certo Lazzaro di San Miniato al Tedesco (l’attuale città di San Miniato, in provincia di Pisa) si recò a Roma per il pellegrinaggio rituale, al suo ritorno gli venne assegnato il soprannome di “Bon Romeo” (“buon pellegrino che è stato a Roma”) che avrebbe originato il cognome della famiglia.

A seguito della rivolta contro la città di Firenze del 1370 gran parte della famiglia Bonromei fu costretta ad abbandonare San Miniato e a disperdersi in molte città italiane tra Milano, Padova, Venezia, Pisa e Genova, generando numerosi rami.

Lo stemma “originario” della famiglia, portato ancora nel XVI secolo dal ramo toscano dei Bonromei, si blasona “di verde a tre sbarre d’oro, alla banda d’argento attraversante” come si vede dipinto a Certaldo nel Palazzo dei Vicari.

A Padova giunsero i fratelli Andrea, Borromeo, Alessandro, Giovanni e Margherita, dove quest’ultima si unì in matrimonio con il nobile Giacomo dei Vitaliani, i Borromei portavano lo stemma: “Fasciato di sei pezzi cuciti di rosso e di verde, alla banda attraversante d’argento” al quale si aggiunse lo stemma Vitaliani “d’argento o tre bande ondate di verde, alternate a due d’azzurro caricate ciascuna da un giglio d’oro posto nel senso della pezza.

Il loro discendente Borromeo Borromei fu il primo a prendere residenza a Milano: da lui originerà il ramo principesco dal quale nel castello di Arona, il giorno di venerdì 2 ottobre 1538, nascerà Carlo, figlio terzogenito di Giberto II Borromeo, conte di Arona, e Margherita di Bernardo Medici di Marignano, sorella del cardinale Giovanni Angelo, che salirà al Soglio Pontificio il 25 dicembre 1559 col nome di Pio IV, il quale favorirà il giovane nipote con incarichi e dignità ecclesiastiche, favorendone una precoce e brillante carriera: nominato abate commendatario dell’abbazia dei SS. Graziano e Felino di Arona a soli sette anni nel 1545, dal 1552 studiò diritto a Pavia, dove si laureò in utroque iure il 6 dicembre 1559. 

La famiglia Medici di Marignano (l’attuale Melegnano), non era imparentata con l’omonima famiglia di Firenze, ma nel 1549 ottenne da essi la concessione dello stemma con le note “palle” in riconoscenza soprattutto dei servizi del capitano di ventura Gian Giacomo de’ Medici, detto il Medeghino, fratello di Gian Angelo. Da allora portarono la stessa arme dei Medici di Firenze: “D’oro a 5 palle [alias: tortelli] di rosso poste in cinta accompagnate in capo da una palla d’azzurro caricata di tre gigli d’od’oro, a sei palle, poste 1, 2, 2, 1, la superiore d’azzurro, a tre gigli d’oro, le altre di rosso.”

Trasferitosi a Roma in seguito all’elezione al pontificato dello zio materno, venne creato cardinale a ventidue anni (31 gennaio 1560), Segretario di Stato (8 febbraio 1560), cardinale della Segnatura di Grazia, amministratore della Diocesi di Milano (7 febbraio 1560), abate commendatario di oltre una dozzina di abbazie (tra le quali Nonantola dal 1560), legato di Romagna e di Bologna (come Deputato il 26 aprile 1560, in carica di nuovo da 17 agosto 1565 e fino al 22 maggio 1566), governatore di diverse città dello Stato Pontificio (Civita Castellana nel 1561, Spoleto nel 1562, Terracina nel 1564), protettore del Regno di Portogallo e dei Paesi Bassi, arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore, Gran Penitenziere. 

Durante il lungo soggiorno romano il giovane cardinale non si negò lussi e piaceri, fondò l’Accademia delle Notti Vaticane, con cui per tre anni (1562-1565) coltivò la tradizione letteraria umanistico-rinascimentale, prima di rivolgersi alla letteratura sacra, scritturale e patristica. 

La morte del fratello maggiore Federico il 28 novembre 1562 fu un momento determinante e di svolta nella vita di Carlo che, resistendo alle forti pressioni famigliari per lasciare lo stato ecclesiastico e porsi a capo della famiglia, si fece ordinare prete segretamente il 17 luglio 1563, poi ufficialmente nella basilica di Santa Maria Maggiore dal cardinale Federico Cesi il 4 settembre 1563, quindi consacrare vescovo il 7 dicembre 1563, festa di Sant’Ambrogio.

In ottimi rapporti coi Gesuiti (dei quali eseguiva gli esercizi spirituali sotto la direzione di padre Giovanni Battista Ribera), con i Teatini, seguendo i devoti consigli dell’arcivescovo di Braga, il domenicano Bartolomeo de Martiribus, decise di conformarsi con i canoni del Concilio di Trento. Quindi nominato arcivescovo di Milano il 12 maggio 1564, ma impegnato a Roma per la stesura del Catechismo, la revisione del Messale e del Breviario e nella commissione per la riforma della musica sacra, condusse da lontano l’applicazione dei decreti tridentini nella sua Diocesi di Milano, attraverso il vicario generale Nicolò Ormaneto.

Ottenuta dal papa l’autorizzazione a lasciare Roma, fece ingresso solenne a Milano il 23 settembre 1565, con la tradizionale cavalcata sul dorso della mula bianca dalla chiesa di Sant’Eustorgio al duomo (non ancora ultimato).

Dalla diocesi si assenterà soltanto in rare circostanze, fra cui i viaggi a Roma per l’assistenza religiosa al trapasso dello zio pontefice, per i conclavi, per l’anno santo del 1575, in occasione di conflitti di giurisdizione con il potere temporale dei governatori spagnoli del ducato di Milano, per i pellegrinaggi a Loreto e alla Sacra Sindone, le visite alle valli svizzere ecclesiasticamente dipendenti da Milano.

Enorme popolarità gli venne dall’essersi prodigato personalmente con carità e dedizione a favore degli appestati durante l’epidemia del 1576.

Dopo la sua morte, 3 novembre 1584 e la sepoltura in duomo, varie congregazioni romane presentarono la figura di Borromeo come modello di vescovo, e il popolo di Milano iniziò a tributargli culto e venerazione. L’iniziativa della sua canonizzazione promossa nel 1601 dall’ordine degli Oblati Ambrosiani, congregazione di preti fondata da Carlo Borromeo nel 1578, si conclude con la bolla di canonizzazione di papa Paolo V Borghese del 1° novembre 1610 e la proclamazione di Carlo Borromeo a santo.

Lo stemma di San Carlo non è stato sempre rigidamente “stabile” nella sua carriera, ma possiamo raggruppare tutte le versioni in due tipologie: “armi grandi” e “armi piccole”.

Le “armi grandi” nella versione più completa, si possono vedere nella basilica romana di Santa Prassede, della quale San Carlo era titolare dal 1564 e che provvide a restaurare; con piccole varianti all’Almo Collegio Borromeo di Pavia (istituto per l’accoglienza degli studenti fondato dal santo nel 1561); all’ingresso del Monastero delle Ambrosiane al Sacro Monte di Varese, che il cugino card. Federigo Borromeo dedicò all’illustre parente: esse si compongono delle armi di famiglia e di alcuni elementi simbolici scelti dal cardinale stesso.

Si può blasonare: “inquartato: nel 1° e nel 4° d’oro, a sei palle, poste 1, 2, 2, 1,  la superiore d’azzurro, a tre gigli d’oro, le altre di rosso; nel 2° e nel 3° partito di uno e  troncato di due: in a) di rosso, al liocorno d’argento, inalberato sulla partizione e fissante un sole d’oro, posto nel cantone destro del capo; in b) d’argento, alla legenda HUMILITAS di nero, in lettere minuscole e caratteri gotici, posta in punta, e sormontata da una corona d’oro, gemmata, a cinque fioroni visibili, bottonati da perle al naturale, il tutto su punte; in c) e f) di verde, a tre bande ondate a onde grosse d’argento e d’azzurro; in d) ed e) fasciato di rosso e di verde, alla banda attraversante d’argento. Sul tutto, di rosso, al morso di cavallo d’argento, posto in banda”.

Il motto Humilitas, adottato anche da San Carlo sottolinea la pietà e la religiosità della famiglia Borromeo scritta, in caratteri gotici rigidamente verticali, sottintende l’umiltà dinanzi a Dio e alle Virtù. È presente nelle armi della famiglia fin dal XIV secolo.

Il liocorno (nome aulico dell’unicorno) simboleggia la forza politica della famiglia: fu concesso a Vitaliano I dal duca Filippo Maria Visconti a significare la fedeltà alla famiglia ducale (spesso è rappresentato rivolto verso il biscione visconteo, a sua volta sovente rappresentato entro una raggiera dorata).

Il morso di cavallo rappresenta la temperanza, la fermezza in grado di bloccare la violenza brutale: esso venne adottato da Giovanni I Borromeo che, con Renato Trivulzio al comando dei Milanesi, fermò gli Svizzeri e i Vallesani nella battaglia del ponte della Crevola (Domodossola) del 28 aprile 1487. Nello stemma del cardinale indica la particolare devozione al “Sacro Chiodo” o “Sacro Morso” la popolare reliquia conservata nel duomo di Milano (normalmente si può vedere con una certa difficoltà, dato che è sospeso a 42 metri di altezza al di sopra dell’altare maggiore, racchiuso in una grande croce, indicata da una lampada rossa perennemente accesa), che la tradizione vuole essere il morso del cavallo dell’imperatore Costantino, fatto realizzare dalla madre Elena con uno dei chiodi della Crocifissione che ella aveva miracolosamente ritrovato a Gerusalemme.

Le “armi piccole” del card. Carlo Borromeo si compongono dei soli stemmi Medici e rosso al morso di cavallo e sono spesso utilizzate su supporti che prevedono le piccole dimensioni, che non permetterebbero di utilizzare la versione completa, ma anche in altri contesti.

Si blasonano: “Inquartato: nel primi e nel quarto de’ Medici, nel secondo e nel terzo di rosso al morso di cavallo d’argento [alias: di nero] posto in banda”.

Se ne vedono diversi esempi presso l’Archiginnasio della città di Bologna (antica sede dell’Università), della quale Carlo Borromeo fu Cardinale Legato tra il 1556 e il 1566, e a rilievo sulla fontana del Nettuno del Giambologna nella piazza Grande della stessa città.

Il cugino di San Carlo, l’arcivescovo Federico Borromeo (1564-1631), suo successore sulla cattedra di Sant’Ambrogio, celebre per essere citato da Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi”, fu figura altrettanto attiva come il parente e lasciò a Milano un’importantissima eredità culturale: la Biblioteca e la Pinacoteca Ambrosiana, aperte al pubblico (tra le prime nel suo genere) nel 1609 e ancora funzionanti. Il suo stemma era differente.

Nota di Massimo Ghirardi, © 2022

Si ringrazia Marcello Semeraro per la gentile collaborazione.

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Disegnato da: Massimo Ghirardi

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“Inquartato: nel 1° e nel 4° d’oro, a sei palle, poste 1, 2, 2, 1,  la superiore d’azzurro, a tre gigli d’oro, le altre di rosso; nel 2° e nel 3° partito di uno e  troncato di due: in a) di rosso, al liocorno d’argento, inalberato sulla partizione e fissante un sole d’oro, posto nel cantone destro del capo; in b) d’argento, alla legenda HUMILITAS di nero, in lettere minuscole e caratteri gotici, posta in punta, e sormontata da una corona d’oro, gemmata, a cinque fioroni visibili, bottonati da perle al naturale, il tutto su punte; in c) e f) di verde, a tre bande ondate a onde grosse d’argento e d’azzurro; in d) ed e) fasciato di rosso e di verde, alla banda attraversante d’argento. Sul tutto, di rosso, al morso di cavallo d’argento, posto in banda”.

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