Alessandro Savorelli

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Da bambino mi ammalavo spesso, ero cagionevole di salute: bronchiti, tonsilliti e affini. Passavo a letto settimane, ma il rendimento scolastico non ne risentiva molto, perché leggevo tutto quello che mi capitava a tiro. Abitavo in campagna – siamo negli anni Cinquanta – e non circolavano molti libri, anche se i miei, capito il soggetto che ero, me ne compravano svariati. In casa, diciamo nella “biblioteca di famiglia”, c’era pochino, qualche romanzo, qualche libro sulla guerra mondiale, cui mio padre aveva partecipato. E poi una strana enciclopedia, l’Enciclopedia pratica Bompiani, mi pare nell’edizione del 1941, un anno di sangue e fuoco… Questa enciclopedia era in realtà in 2 volumi, il primo, quello che certo mi sarebbe piaciuto di più (con la storia, la geografia, l’arte etc.) era rimasto a Modena, a casa di un mio zio. Mia madre, emigrata a Prato nel 1945, aveva portato con sé il 2° volume: di scienze “pratiche e applicate” appunto: gastronomia, giardinaggio, meccanica, primo soccorso, igiene, ricamo e altre cose simili. Il ricamo e il giardinaggio li saltai, ma alla fine di questo mostro di 2000 pp. in corpo piccolo trovai la regina delle “scienze pratiche e applicate”… l’araldica! Era un centinaio di pagine con una breve introduzione, che ricordo piuttosto noiosa e burocratica, ma con di seguito un glossario araldico assai ricco e la spiegazione, fatta sull’arme grande di casa Savoia, della tecnica della blasonatura. Avrò avuto 7-8 anni: era la mia “scienza pratica e applicata”, non ebbi dubbi. La mia carriera cominciò con album e quaderni in cui disegnavo stemmi con le matite colorate, applicando le regole. Ero però un po’ indisciplinato e al posto dei 7 colori araldici, per non sprecare le preziose matite, ne mettevo una quindicina… di grigio, al leone di pervinca; di verde marcio, all’aquila di rosa; di viola, alla banda d’arancione, etc. … Quando cominciò la motorizzazione, i miei mi portavano a far gite e al mare, e scoprii allora l’isola del tesoro dell’araldica municipale: le calcomanie e gli adesivi che all’epoca si mettevano in quantità industriali sui lunotti delle macchine e sulle vespe (a perenne testimonianza dei propri viaggi, vacanze e gite fuori porta). Più volte fui cacciato in malo modo dai proprietari delle auto (che sospettavano tentativi di furto), sorpreso a sbirciare le figurine e a copiare su un quadernino, che avevo sempre con me, gli stemmi di quei posti: Sanremo, Viareggio, Rimini, Campione, Desenzano, Aosta, Brunico, Amalfi, Sorrento… insomma il bel paese turistico-araldico. Gli adesivi stranieri furono una sorpresa, tedeschi, francesi… e infine la grande scoperta: le targhe, al mare in Romagna, delle auto tedesche e svizzere, coi Länder, i cantoni, le città e persino i Landkreise (circondari). Poi, quando i miei nel 1959 si trasferirono in città, dalla campagna, a Prato: fu la grazia divina. Lì c’era l’arca perduta dell’araldica, la x che indica sempre il luogo dove si doveva scavare… il Palazzo comunale trecentesco, il Duomo, i palazzi, le porte erano ricoperti di decine di stemmi antichi in pietra e dipinti. La manna degli ebrei… Ho continuato a fare il collezionista di stemmi in età adulta: libri, stampe, cartoline, figurine, fotocopie di ciò che non si trovava. Ma non avevo mai pensato a scrivere di araldica, finché nel 1994 il mio amico Andrea Rauch, uno dei più importanti grafici italiani, mi chiese «qualche pagina» d’introduzione per il progetto del redesign dello stemma di Siena del quale era stato incaricato. Le scrissi di getto e da allora non mi sono fermato: 14 tra volumi e edizioni, 55 tra saggi in rivista e in volume, dozzine di testi minori di carattere divulgativo su «Medioevo» e in altre riviste specialistiche, conferenze, interventi a convegni, lezioni, l’adesione alla «Società araldica svizzera», la nomina a socio dell’Académie internationale d’Héraldique, la collaborazione al CESCM di Poitiers, etc. Un grande divertimento, un sogno infantile realizzato per caso e in ritardo. Alla Scuola Normale dove lavoravo conobbi di persona Michel Pastoureau, che considero indegnamente il mio “maestro”, come lo è in realtà un po’ di tutti coloro che si dedicano all’araldica in maniera meno convenzionale che un tempo. Tra le cose che ho scritto, credo che le più originali (e anche le più numerose) rimangano proprio quelle sull’araldica civica: da quella sono partito, è l’unico settore dell’araldica in cui mi sento competente e quello che per me resta il più avvincente, fluido, ricco di applicazioni. L’araldica in sé, che gli sta alle spalle, è certo – almeno alle origini – più bella, più pura, più “vera”. Ma, come mi è occorso di scrivere «l’araldica civica ha costituito tacitamente una linea di parziale resistenza alla corruzione e all’inutile complicazione del sistema araldico» in età moderna, e ha finito, paradossalmente «per conservarne alcuni caratteri più genuini», mentre l’araldica nobile ha condotto, col crollo dell’ancien régime e con la sua fossilizzata appendice otto-novecentesca, a una completa eclisse di tutto il sistema che sopravvive stancamente. L’esoterismo che si suole attribuire all’araldica è giustificata dall’uso castale della superstite araldica aristocratica e dalle forme che essa assunse tra XVI e XIX secolo. L’araldica impersonale, al contrario (e in particolare quella civica), resistendo in qualche misura al trend della decadenza e praticando un equilibrio talora riuscito fra sistema dei segni e sfera dei significati, ha trasmesso, sopravvivendo, alla grafica della comunicazione e ad esigenze identitarie contemporanee di vario genere (sociali, sportive, ideologiche, culturali, commerciali, etc.) un modello iconico ancora in parte fruibile anche nel mondo moderno. L’araldica comunale, pur con tutti i suoi difetti, è l’ultima espressione di quella che gli studiosi hanno chiamato araldica viva, cioè di un sistema di segni non solo scritto e dipinto, com’è il sistema moribondo della tarda araldica nobile, ma operativo, versatile e concreto.